Barbara, ovvero un discorso “meta” che abbraccia quasi ogni tipo di arte: dal cinema al teatro, dalla musica alla più profonda tradizione culturale francese ed europea, Mathieu Amalric porta sullo schermo una vera e propria messa in scena, nel senso più letterale del termine. Resta praticamente impossibile non rimanere abbagliati dall’immenso lavoro di recupero e rielaborazione culturale che il regista presenta in questo film.
Un’attrice deve vestire i panni di Barbara, un personaggio dalle mille sfaccettature e dai risvolti psicologici non semplici. Il personaggio viene studiato attraverso il suo rapporto con la madre (poco importa che si tratti di quella reale o di quella diegetica), con i colleghi di lavori, con i ricordi di un passato culturale che non smettono mai di accompagnarla nelle sue giornate. Ben presto i confini tra fuori e dentro lo schermo, fuori e dentro il set si fanno labili e quasi impossibili da definire. Solo qualche accenno di trucco esalta una sempre più evanescente diversità tra attrice e personaggio. Accanto a lei, lo stralunato regista – Amalric in persona – che insieme a lei cerca l’espressione artistica che meglio rappresenti l’emozione da trasmettere. Barbara propone un panorama di personaggi in un climax di alienazione sociale e dedizione artistica, di cui la protagonista e Amalric rappresentano la punta di diamante.

Il risultato finale è forse, più di tutto, un omaggio alla cultura in senso lato. Un canto d’amore ricco di nostalgia e ricordi, con cui il regista non si risparmia ostentazioni classiciste (forse classiste addirittura?). Il racconto si dipana a prescindere dal messaggio artistico, suo malgrado, e perde via via importanza, raggiungendo lentamente i margini dello schermo e della percezione spettatoriale.
Questa penetrazione artistica in un universo culturale così stratificato provoca, quasi inevitabilmente, uno scollamento rispetto alle aspettative del pubblico. In qualche modo si ignorano le opzioni che gratificano gli spettatori in maniera immediata, preferendo dare libero spazio ad un concentrato culturale composito, passando proprio a quest’ultimo elemento il compito di soddisfare gli occhi e, soprattutto, il cuore del pubblico. In questo senso, dunque, Barbara pecca per un’alienazione artistica che ammalia e conquista la stima di tutti, anche se, per raggiungere tale livello, tralascia di coinvolgere gli astanti.
La scelta alla base di questo processo è forse la focalizzazione totale su una narrazione che non scorre in senso orizzontale, seguendo lo sviluppo delle vicende, quanto su di uno sguardo che arriva in profondità fino al cuore dei personaggi.
Dopo La chambre bleue, Amalric torna a Cannes con un suo film, per aprire la sezione di Un certain regard, affermandosi come uno dei più interessanti artisti francesi contemporanei, spesso (ahi noi!) snobbato dalle sale italiane. La sua capacità romantica di raccontare e raccontarsi, anche in Barbara, rimane indubbia.
Teresa Nannucci