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“A bigger splash” di Luca Guadagnino

Una rockstar afona (Tilda Swinton) trascorre assieme al fidanzato (Matthias Schoenaerts) l’estate sull’isola di Pantelleria, lontana dai riflettori e dalle arene stracolme di fan. A rovinare l’armonia ci pensa l’ex amante/compagno, estroverso produttore discografico (Ralph Fiennes) che piomba nella loro casa assieme alla figlia (Dakota Johnson). Mentre i quattro trovano vecchi e nuovi equilibri e, di conseguenza, rotture e mutazioni, sullo sfondo le coste siciliane sono giornalmente meta di attracco di extracomunitari in fuga dai paesi in guerra.

Piovono fischi alle due anteprime mattutine riservate alla stampa per il nuovo film di Luca Guadagnino, A bigger splash che, dove il regista ritrova, a distanza di sei anni la musa Tilda, sempre più a suo agio nella sua androginia. A nessuno, o al massimo un paio dei film fuori e dentro il concorso, era stata finora concesso tanto calore emotivo: applausi poco convinti, silenzi, borbottii, fino a stamani la critica si era adeguata alla medietà della proposta, quasi rassegnata a dover subire le immagini. Ed è probabilmente a causa di questa rassegnazione che in tantissimi si sono sentiti quasi offesi da Luca Guadagnino, dalla sua regia e dal suo accostare tragico e comico in un tentativo riuscito di rappresentare il grottesco motore della contemporaneità: l’indifferenza.

I corpi che si intrecciano tra gli scogli di Pantelleria, come serpenti insidiosi, non si curano del mondo ma ne abitano una porzione per ingannare la morte, giorno dopo giorno. Quattro caratteri opposti sgomitano per imporsi agli altri, chi mettendo in scena uno spettacolo continuo, chi dedicandosi al suo futuro, chi relegandosi nel mutismo e chi aumentando i suoi anni per graffiare e lasciare il segno.

Guardando una delle fonti di ispirazione del film, ovvero l’omonimo quadro gigante realizzato dall’artista inglese David Hockney, ritroviamo la stessa atmosfera che regola l’evoluzione della storia: un tuffo, in una piscina quando tutto attorno regna ordine e immobilità, uno schizzo inquietante che, da solo, vale centinaia pagine di sceneggiatura redatte, guarda un po’, anche da David Kajganich, uno che di mestiere scrive film horror (Blood Creek, The Invasion e il prossimo remake di It).

In quella piscina avviene l’unico dramma diegetico (altri sono evocati solo come fantasmi), la svolta drammatica e grottesca con cui raccontare il disinteresse che è dei protagonisti nei confronti di qualunque cosa che vada oltre il loro spazio vitale e, parallelamente, di tutti noi di fronte al fenomeno dell’immigrazione via mare. I quattro protagonisti sono personaggi esterni, stranieri che attraversano un luogo come fosse uno dei tanti resort stellati immersi nella povertà; penetrano il paesaggio e lo modellano a loro piacimento, non interagiscono con la bellezza (la ricotta appena fatta) ma ne traggono piacere turistico. Figure di per sé grottesche che solo il dramma può svelare in quanto tali, riportandoci alla mente che quel luogo è meta di speranza prima che atollo da colonizzare. Lasciando l’immigrazione sullo sfondo, come basso continuo, Guadagnino riesce in realtà a dargli consistenza, pur senza riprenderne il dramma: in sostanza si tratta di cinema, di assenza che si impone, dell’incombenza della morte, di vite strappate che non vedremo mai e di fatuità che, al contrario, osserviamo immobili fino allo sfinimento.

Michele Galardini

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