“Il trailer del film che uscirà quando saremo tutti morti”. Titola così l’edizione italiana de Il Post per annunciare l’uscita del trailer di 100 years, film girato da Robert Rodriguez e interpretato da John Malkovich. Una storia futuristica che potrà essere vista solo nel futuro, precisamente nel 2115, quando di noi sarà rimasta (forse) la memoria, e tutto solo perché tale progetto è stato finanziato da Louis XIII Cognac, brand di pregio nel mondo dei distillati.
Un’operazione di per sé elitaria resa ancora più esclusiva dal fatto che il biglietto metallico per la proiezione verrà consegnato solo a mille persone, considerate dalla stessa azienda, le più influenti del pianeta.
Snobismo? Può darsi, ma al di là delle lamentele di noi poveri cravattari a cui non toccherà mai quel biglietto metallico, l’idea, forse involontaria, che anima il progetto è quanto di più pionieristico si è visto a livello comunicativo negli anni Duemila. Ci troviamo nel marketing 4.0, poiché è il tipo di promozione che, per prima, prende in considerazione l’unica variabile che rende l’essere umano unico rispetto alle altre forme di vita: la quarta dimensione, il tempo.
Il cinema è il medium del tempo, della morte in movimento, dell’attesa, dell’ipertestualità: il film, prima di diventare opera, è il prodotto di un’industria che mira a creare aspettative nel medio periodo, salvo poi nascondersi quando ci sarebbe da scusarsi per tutto quel tempo perso.
In origine erano i divi, poi i produttori, poi i registi a catalizzare l’attenzione sul film in uscita; oggi sono i benauguranti (Quentin Tarantino presenta…), i temi (tratto da una storia vera) o i film stessi (dopo il successo di…) gli strumenti di maggiore efficacia a livello promozionale.
Bisogna fidelizzare il pubblico perché si è scoperto che il pubblico ama fidelizzarsi (il revival ipertrofico delle serie tv ne è l’esempio migliore) ma come fare a fidelizzare spettatori, seppur pochi, che non vedranno mai il film?
Semplice, a nessuno dei responsabili della Lousi XIII interessa fidelizzare il pubblico: semplicemente vogliono creare un evento, che è in pratica quello che accade oggi per molti film in uscita, senza distinzione fra produzioni enormi e medio-piccole, e che accadrà in misura sempre crescente almeno nel mondo occidentale (Lucas e Spielberg docent).
Nel caos dell’editoria, concentrata a osservare il dito che punta la Luna, pochissimi hanno riportato le parole di Robert Rodriguez che spiegano ampiamente cosa significa questo evento per il nostro tempo: “In this world of instant gratification, where you can see everything right now, what if we created a piece of art that the audience would enjoy at some point?”
In pratica, nell’era dei desideri realizzabili, cosa succederebbe se un oggetto non fosse messo a disposizione ma posto in un punto temporale in cui il desiderio diventerebbe, per natura, inutile? Desideriamo in maniera sempre maggiore cose che diventano sempre più accessibili per motivi sempre più futili. I film, ad eempio, sono divenuti oggetti d’affezione ai quali legarsi, grazie al web, già all’uscita delle prime featurette, dei primi rumors sul cast, delle prime indiscrezioni sul regista e sulle location. Ma il desiderio, lungi dall’esaurirsi al momento della proiezione, muta forma, si rigenera e si indirizza verso altri film, verso altri oggetti d’affezione.
Nel caso di 100 years, a meno di non voler tramandare il desiderio per osmosi ai nostri discendenti, dobbiamo arrenderci di fronte a qualcosa che non avremo, ad un desiderio irrealizzabile, ad un punto morto nel ciclo del consumo.
Dobbiamo arrenderci al fatto che questo film lo vedranno altri, in un tempo che non potrà essere il nostro: siamo pronti a questo esperimento di realtà?
Michele Galardini