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The Hateful Eight e la complessa menzogna di Tarantino

The Hateful Eight è una menzogna. Un trucco escogitato da Quentin Tarantino per proteggere il suo parto più complicato, il figlio più conteso, la promessa di un aborto che si è poi trasformata in una nascita messianica. Da quanto la prima sceneggiatura di The Hateful Eight venne rubata, o meglio spoilerata, da un agente hollywoodiano e pubblicata sul Gawker, alla prima proiezione natalizia, sono passati quasi due anni. Un parto anomalo per un figlio che aveva già cominciato a scalciare a gennaio 2014.

Ma se questo è il prezzo per il film, mutilato di almeno 20 minuti e senza la grana della pellicola 70mm, possiamo fare a meno di lamentarci per quello che è stato e quasi sperare che si ripeta, tanto siamo avidi del bel cinema.

La menzogna di The Hateful Eight parte dal titolo. Tarantino riprende il gioco felliniano di 8 ½  ma mentre per il regista di Rimini nella conta trovavano posto sei opere più tre film co-diretti (Luci del varietà, L’amore in città e Boccaccio ’70) Tarantino non tiene in considerazione né My best friend’s Birthday (giustamente, poiché mai uscito nelle sale) né gli episodi di Four Rooms e Sin City. Ad essere felliniani fino in fondo questo sarebbe il suo nono film.

La menzogna di The Hateful Eight è nel genere: il western. Nato come sequel temporale di Django, di cui riprende la tematica razziale, rileggendola alla luce della fine della Guerra Civile, il film sembra inizialmente aderire, più che in altre opere, all’estetica e all’ideologia della frontiera. Campi lunghi, la Natura che ingloba l’uomo, una carovana di reietti (Ombre rosse è dietro l’angolo) e l’emporio di Minnie a fare da O.K. Corral. Eppure, proprio per il legame dichiarato con Django, un non-western in chiave Pop il cui ascendente è, semmai, il revenge movie(soprattutto per il ruolo della giovane ragazza di colore), The Hateful Eight si stacca fin da subito dall’idea che ci siano due parti in conflitto e che tale conflitto nasca da scontri ideologici o di possesso.

La soglia, la porta, elemento fondante del genere (vedi Sentieri Selvaggi) è fin da subito scardinata, tenuta assieme da assi di legno e chiodi e le rare incursioni all’esterno dell’emporio sono dovute a bisogni fisiologici, come liberarsi di un cadavere. Certo, il film è un tripudio di armi da fuoco e giacconi in pelle di orso, ma visto che il western non è un discorso esclusivamente estetico, se proprio dobbiamo inscrivere il film in un genere quello dovrebbe essere il giallo, lo splatter, l’horror americano anni ’70. In sintesi, quando si parla di Tarantino, c’è molto più western in Kill Bill che in tutti gli altri film messi assieme.

La menzogna di The Hateful Eight è nel racconto. La maggior parte degli spettatori non avrà modo di constatarlo, poiché la versione in Dcp distribuita nelle sale non conterrà né Overture né Intermission, ma dalla fine del terzo capitolo, con Bob il Messicano che suona una versione sbilenca di Silent Night, all’inizio del quarto passano 12 minuti anche se il narratore (Tarantino) riprende la storia parlando di uno iato di 15 minuti. “Tutte le storie celano una qualche menzogna, ma non questa volta, è la mia promessa. Nella prossima ora, ciò che ascolterete sarà verità vera, basata su fatti veri” dice il mago Orson Welles alla telecamera per introdurre le vicende di F for Fake, salvo poi tornare a rivolgersi allo spettatore 75 minuti dopo: 60 minuti di verità e 15 di menzogna.

L’intero impianto narrativo di The Hateful Eight ruota sopra la macina del falso, come se tutti gli strati della società americana, dall’uomo di legge ad un vecchietto qualunque fino al peggiore dei banditi, vivessero in un eterno paradosso del mentitore inchiodati, come il Cristo in legno che campeggia sulla strada per l’emporio,  sotto la scritta “Questa frase è falsa”. Nessuno si salva da tale preposizione e tutti, ognuno a suo modo, cercano di sopravvivere celando informazioni, manipolandone altre, inventando storie, canzoni, cambiando nome, nascondendosi nell’ombra o coprendo gli indizi della propria colpevolezza. Come la casa de L’Angelo sterminatore, l’emporio di Minnie è il contenitore aperto dal quale nessuno riesce a fuggire, capace di impedire all’oggetto maligno di espandersi nel mondo (le velleità della borghesia per Bunuel, la menzogna e il razzismo per Tarantino).

La menzogna in The Hateful Eight è nei personaggi.  Gli otto detestabili ( o “pieni di odio” a seconda di come lo si vuole tradurre) non sono mai in realtà otto. Basta avere due mani rendersi conto che, nella migliore delle ipotesi, i protagonisti sono almeno nove. Se si obietta che il guidatore della carovana O.B. Jackson (James Parks) non faccia parte della contesa si dovrà replicare lo stesso discorso anche per il Gen. Sanford Smithers (Bruce Dern), riducendo così il numero a 7. Si tratta, però, di aghi della bilancia ignari, o quasi, dello scontro imminente ma al tempo stesso partecipi in prima persona dell’evoluzione della storia. Sono i personaggi che subiscono con maggiore violenza l’incedere della menzogna, bloccati in un luogo che non ha alcun valore per loro e oltretutto privati anche dello statuto di testimoni. L’odio del Generale è politico, razziale a tratti misantropo e rappresenta il baluardo reazionario che contrasta maggiormente la figura del Magg. Marquis Warren (Samuel L. Jackson),  mentre O.B. odia la vita come un qualunque carovaniere del far-west: ecco perché solo il primo appare nella locandina e nella conta degli hateful.

In questo splatter da camera aumentato, dove le lenti Panavision 65mm bloccano sul nascere la sensazione claustrofobica,  allargando a dismisura le pareti dell’emporio, grazie ad una splendida costruzione delle luci e dei fuochi, Tarantino riversa la sua enorme capacità di sviluppare la storia attraverso i dialoghi e di giocare con una temporalità malleabile che, dall’illusione di diretta del piano sequenza, si sposta sulle immagini passate di un racconto nel racconto, che fa marcia indietro per spiegare il pregresso oppure si ripete accogliendo un nuovo soggetto osservante (Jackie Brown docet). Se sia il suo miglior film, poco importa, di sicuro è la sua opera più complessa.

Michele Galardini

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